Sono
passati più di dieci anni dal giorno in cui ci ho visto, per l’ultima volta,
Michael Robartes, e, per la prima volta, i suoi amici e condiscepoli; e sono
stato testimone della sua, e della loro tragica fine, e passai attraverso
strane esperienze che mi hanno cambiato a tal punto che i miei scritti si sono
fatti più oscuri e piacciano di meno; e dovrò indossare la tonaca e cercare
rifugio nell’ordine di San Domenico. Avevo appena pubblicato Rosa Alchemica,
un’operucciola sugli Alchimisti, alla maniera di Sir Thomas Brown, e avevo
ricevuto molte lettere di fedeli delle scienze occulte, che mi rimproveravano –
così la definivano – la mia timidezza, non riuscendo a credere che una simpatia
tanto palese fosse solo la preferenza dell’artista, che è fatta per metà di
pietra, per tutto ciò che in ogni epoca ha fatto battere il cuore dell’uomo.
Poco dopo aver iniziato le mie ricerche avevo scoperto che la loro dottrina non
era solo una chimerica fantasia chimica, ma una filosofia che applicavano al
mondo, gli elementi e all’uomo stesso, e che il loro tentativo di ricavare
l’oro dai metalli vile non era che parte della trasformazione universale di
tutte le cose in una sostanza divina e
imperitura, e ciò mi aveva consentito di fare del mio libricino una sognante
fantasticheria sulla trasmutazione della vita in arte, e un grido d’immenso
desiderio per un mondo fatto interamente d’essenze. Me ne stavo seduto a
fantasticare su quanto avevo scritto a casa mia, in uno dei vecchi quartieri di
Dublino, una cosa che i miei antenati avevano reso quasi celebre grazie alla
loro partecipazione ala vita politica della città e all’amicizia, che li legava
alle celebrità della loro generazione, e mi sentivo insolitamente felice per
aver finalmente realizzato un progetto a lungo accarezzato, e trasformato le
mie stanze in un’espressione della dottrina da me prediletta. I ritratti, che
avevano più valore storico che artistico, erano scomparsi; e arazzi, pieni del
blu e del bronzo dei pavoni, ricadevano a coprire le porte, e chiudevano fuori
tutto quanto, nella storia come
nell’agire umano, non avesse il segno della bellezza e della serenità,
ed ora, guardando il mio Crivelli e soffermandomi sulla rosa in mano alla
Vergine, la cui forma era così delicata e precisa da sembrar più un pensiero
che non un fiore, o il mio Piero della Francesca, così pieno di spirituale
stupore, provavo un’estasi cristiana ma senz’essere schiavo, come il cristiano,
di legge e consuetudine. Soffermandomi su antiche divinità bronzee, Dei e Dee,
che avevano acquistato ipotecando la mia casa, provavo tutto il godimento di un
pagano per ogni varietà di bellezza, ma senza le paure del pagano teorizzato da
un destino insonne e affaccendato in gravosi sacrifici; e mi bastava accostarmi
alla mia libreria, con i suoi libri tutti rilegati in pelle, ormai da fregi
complicati, e dai colori accuratamente scelti; Skakespeare rilegato
nell’arancione della magnificenza mondana, Dante nel rosso cupo della sua ira,
Milton nel grigio azzurro della sua compostezza formale, per conoscere delle
passioni umane quanto desideravo conoscere senza gustarne l’amarezza e senza
nausearmene. Mi ero circondato di dei perché non credevo in alcun dio, e
sperimentavo ogni piacere perché non mi davo a piacere alcuno, ma mi tenevo in disparte,
individuo, indissolubile, specchio di levigato acciaio. Guardavo nel trionfo di
tali fantasie gli uccelli di Era, scintillanti nella luce del fuoco come
mosaici bizantini; e il mio pensiero, per questo il simbolismo era una
necessità, ne faceva i guardiani messi a custodia delle porte del mio mondo,
che impedivano l’ingresso a tutto ciò che non fosse, come loro, fiorente di
bellezza; e per un attimo pensai, come avevo già pensato tante altre volte, che
fosse possibile spogliare la vita d’ogni amarezza all’infuori dell’amarezza
della morte; e allora un pensiero che sempre e ogni volta succedeva a
quell’altro pensiero mi riempì di un dolore appassionato. Tutte quelle forme:
quella Madonna con la sua meditabonda purezza, quegli spirituali volti felici
nella luce del mattino, quelle divinità di bronzo colla loro impassibile
dignità, quelle figure selvagge che precipitavano di disperazione in
disperazione, appartenevano a un mondo divino da cui ero escluso, ed ogni
esperienza, per profonda che fosse, ogni percezione, per squisita che fosse,
m’avrebbe recato l’amaro sogno di un’energia infinita che non avrei mai potuto
conoscere, e anche nel mio movimento più perfetto sarei stato diviso, e uno dei
miei due lo avrebbero guardato con occhio grave il momento di gioia dell’altro.
Avevo ammucchiato, intorno a me, l’oro nato nei crogiuoli altrui, ma, la
realizzazione del sogno supremo dell’alchimista, la trasmutazione del cuore
stanco in spirito instancabile, era ancora lontana, per me, come lo era stata,
certamente per lui. Mi misi al lavoro col mio acquisito più recente, un insieme
di apparecchiature alchimistiche che non mi aveva assicurato il commerciante di
Rue Le Peletier, erano appartenute, un tempo, a Raimondo Lullo, e, mentre
collegavo l’alambicco all’athanor e collocavo, accanto a loro, il lavacrum
maris capii la teoria alchimistica, secondo cui tutti gli esseri,
separati dal grande abisso, ove vagano gli spiriti, in gran moltitudine pur
essendo un unico spirito,sono stanchi, en nell’orgoglio del mio sapere
iniziatici, mi sentii in comunione con gli alchimisti, consumati di una sete di
distruzione che li induceva a celare, sotto il velame, i simboli del leone e
del drago, della aquila e del corvo, della rugiada e del nitro, la ricerca di
un’essenza che avrebbe dissolto ogni cosa mortale. Mi ripetei la nona chiave di
Basilio Valentino, là dove paragona il fuoco del giorno del Giudizio al fuoco
dell’alchimista, e il mondo al fornello dell’alchimista, e vorrebbe farci
capire che non tutto deve dissolversi prima che la sostanza divina, oro
materiale od estasi immateriale che sia, si risvegli. Io, invero, avevo
dissolto il mondo mortale e vivevo in mezzo ad essere immortali, ma non avevo
raggiunto nessun’estasi miracolosa. Mentre ero immerso in questi pensieri, scostai
le tende e guardai fuori nel buio, ed, alla mia fantasia turbata tutti quei
puntini di luce che riempivano il cielo parvero i fornelli di innumerevoli
alchimisti divini, che lavorassero continuamente a trasformare il piombo in
oro, la stanchezza in estasi, i corpi in anime, la tenebra in Dio; e di fronte
alla loro opera perfetta avvertii il peso della mia condizione di mortale, ed
invocai, a gran voce, come tanti altri sognatori e letterati, di questa nostra
età, hanno invocato, la nascita di quella raffinata bellezza spirituale che
sola potrebbe salvare le anime gravate da tanti sogni. Il mio fantasticare fu
interrotto da qualcuno che bussava forte alla porta, la qualcosa mi stupì assai
perché non aspettavo visite ed avevo ingiunto, ai miei domestici, di fare ogni
cosa silenziosamente, per non infrangere il sogno di una vita quasi segreta.
Ero alquanto curioso, ed, avendo deciso di andare io stesso, ad aprire, presi
un candeliere d’argento, dalla mensola del caminetto e, cominciai a scendere le
scale. Sembrava che i domestici fossero usciti perché, sebbene il rumore dei
colpi sgorgasse attraverso ogni angolo e fessura della casa, nessuno si muoveva
nelle stanze di sotto. Mi ricordai che, essendo le mie esigenze tanto poche,
essi, avevano preso l’abitudine di andare e venire, a loro comodo, lasciandomi,
spesso, solo per ore. Fui sopraffatto dall’improvviso vuoto, e dal silenzio di
un mondo da cui avevo scacciato tutto, tranne i sogni, e, mentre tiravo il
catenaccio tremavo. Mi trovai dinanzi Michael Robartes, che non vedevo più da
anni: i capelli rossi arruffati, l’occhio fiero, le labbra frementi e sensitive
e gli abiti grossolani lo facevano somigliare, proprio come quindici anni
addietro, ad un incrocio tra un debosciato, un santo ed un contadino. Era in
Irlanda da poco, disse, e voleva vedermi
per una faccenda importante: in verità, l’unica faccenda importante, per lui e
per me. La sua voce mi rievocava gli anni in cui eravamo stati studenti a
Parigi, e, ricordando la forza magnetica, con cui mi dominava allora, ebbi un
poco di paura. Ero, soprattutto, seccato per quella visita indesiderata ed
inopportuna, perciò, le feci strada precedendolo su per lo scalone, dov’era
passato Swift, scherzando e motteggiando, e Curran raccontando storie e
citando, in greco, in giorni più semplici, prima che la mente umana, resa più
sottile e più complicata dall’arte e dalla letteratura romantiche, cominciasse
a fremere sui confini di qualche rivelazione inaspettata. Sentii che mi tremava
la mano, e, vidi che la luce della candela vacillava, più del dovuto, sugli dei
e sulle ninfe di cui uno stuccatore italiano, del Settecento, aveva ornato il
muro, facendoli sembrare essere primordiali che stessero, lentamente, prendendo
forma nel buio vuoto ed informe. Quando la porta della stanza si fu chiusa, e
la tenda con i pavoni ricadde tra noi ed il mondo, ebbi, ma senza capire come,
la sensazione che stava per succedere qualcosa di inatteso e di singolare.
Andai verso il caminetto, ed essendomi accorto che un piccolo turibolo di bronzo,
senza catenelle, su cui erano state montate, all’esterno, delle porcellane
dipinte da Orazio Fontana, e, che io avevo riempito di antichi amuleti, si era
rovesciato spargendo intorno al suo contenuto, cominciai a raccogliere gli
amuleti ed a rimetterli a posto, sia per riordinare i miei pensieri sia per
l’abituale riverenza con cui ritenevo doveroso trattare degli oggetti, da tanto
tempo, collegati a segrete speranze e timori. <<Vedo – disse Michael
Robartes – che l’incenso ti piace ancora, e posso mostrarti un incenso più
prezioso che qualsiasi altro tu non abbia mai visto>>, e così dicendo
mi prese il turibolo di mano e ammucchiò gli amuleti tra l’athanor e
l’alambicco. Mi sedetti, ed egli si sedette accanto al fuoco, e rimase seduto
per un po’ a guardare dentro il fuoco, col turibolo in mano. <<Sono
venuto per domandarti una cosa – disse e quest’incenso impregnerà la stanza, e
i nostri pensieri, del suo dolce profumo mentre parliamo. Viene dalla Siria, e
me lo ha dato un vecchio, il quale mi ha assicurato che è fatto con dei lini
che appartengono alla stessa famiglia dei fiori che nel Giardino del Getzemani
coprirono con i loro pesanti petali purpurei le mani i capelli e i piedi di
Cristo, e lo avvolsero nel loro alito pesante, finché non diede un grido,
lamentando la croce e il Suo destino>>.Da un sacchetto di seta vuoto
un po’ di polvere nel turibolo, mise il turibolo sul pavimento e accese la
polvere, da cui si levò un fiotto di fumo azzurrognolo, che si allargò sul
soffitto e ridiscese in basso, come il fico della Bengala di cui parla Milton.
L’incenso mi fece l’effetto consueto, e mi sentii invadere da una leggera
sonnolenza, tanto da sobbalzare quando Robartes disse, <<sono venuto a
farti quella domanda che ti ho già fatto a Parigi. Preferisce lasciare Parigi
piuttosto di rispondere>>.Avevo volto gli occhi verso di me, e li
vedevo scintillare ala luce del fuoco attraverso la nuvola d’incenso, mentre
rispondevo: <<vuoi sapere, cioè, se intendo diventare un adepto del
tuo Ordine della Rosa Alchimistica? Mi sono rifiutato a Parigi, quand’ero pieno
di desideri insoddisfatti, e dovrei acconsentire adesso che finalmente ho
plasmato la mia vita secondo i miei desideri?>>. <<Da allora sei
molto cambiato – rispose. – Ho letto i tuoi libri, e adesso ti vedo in mezzo a
tutte queste immagini, e ti capisco meglio di quanto non ti capisca tu stesso,
perché sono stato a fianco di tanti e tanti sognatori che si sono trovati
davanti allo stesso bivio. Hai chiuso il mondo fuori della porta e hai radunato
gli dei intorno a te, e, se non ti getterai ai loro piedi, sarai sempre
apatico, e di vacillante proposito, perché l’uomo deve dimenticare la propria
infelicità tra la confusione e il rumore della moltitudine nel mondo e nel
tempo; oppure cercare di unirsi misticamente alla moltitudine del governo il
mondo e il tempo>>. Lui mormorò qualcosa che non riuscì a sentire,
come se si rivolgesse a qualcuno invisibile ai miei occhi. Per un attimo mi
parve che la stanza diventasse buia, come accadeva in passato quando stava per
prodursi in qualche curioso esperimento, e nel buio i pavoni sulla porta
sembravano ardere di un colore più intenso e luminescente. Mi sottrassi a
quell’illusione che era, credevo, solo un effetto della memoria e della foschia
prodotta dall’incenso. Non volevo ammettere che fosse in grado di soggiogare il
mio intelletto ormai maturo, e dissi, <<Anche ammettendo che io abbia
bisogno di una fede spirituale e di qualche forma di culto, perché mai dovrei
recarmi ad Eleusi invece che ai piedi del Calvario?>>. Egli si piegò
verso di me e cominciò a recitare una specie di cantilena ritmica; e mentre
parlava dovetti nuovamente lottare con l’ombra, come di una notte più antica
della notte del sole, che cominciava a velare la luce delle candele e a
inghiottire i minuti riflessi luccicanti sugli angoli delle cornici e sulle
divinità di bronzo, e a volgere l’azzurro dell’incenso in un violetto carico:
mentre non spegneva lo scintillio e la luminescenza dei pavoni, come se ogni
singolo colore fosse uno spirito vivente. Ero caduto in un profondo sogno ad
occhi aperti in cui sentivo la sua voce venire come da lontano. <<E
tuttavia non c’è nessuno che sia in comunione esclusivamente con un solo dio –
diceva – e più l’uomo vive nella fantasia, e più affina l’intelletto, più sono
gli dei con cui s’incontra e parla, e più soggiace all’influsso di Orlando che
a Roncisvalle diede fiato per l’ultima volta alla tomba dei voleri e dei
piaceri del corpo; e di Amleto che li vide corrompersi e svanire, ruppe in
singhiozzi, e di Faust, che li cercò in un lungo e in largo per il mondo e non
riuscì a trovarli; e all’influsso delle innumerevoli divinità che si sono
incarnate in corpi spirituali nella mente dei poeti e dei narratori moderni, e
all’influsso delle antiche divinità, che dal Rinascimento in poi hanno ricevuto
tutto dei loro antichi culti, tranne il sacrificio d’uccelli e pesci, la
fragranza delle ghirlande e il fumo dell’incenso. I più credono che siano stati
gli uomini a fare queste divinità, e che possono di nuovo disfarle; ma noi che
le abbiamo viste passare in sferraglianti armature, e in lunghe morbide
tuniche, e le abbiamo sentito parlare con voce chiara mentre giacevano, come
morti, in trance, sappiamo che sono loro a fare e disfare l’umanità, la quale
in verità altro non è se non il fremito delle loro labbra>>.Si era
alzato e aveva preso a camminare avanti e indietro, e nel suo sogno ad occhi
aperti era diventato una spola che tesseva un’immensa trama purpurea le cui
pieghe andavano riempiendo la stanza. Sembrava che la stanza fosse diventata
inspiegabilmente silenziosa, come se al mondo fosse cessata ogni cosa tranne
quel tessere e il crescente di quella tela. <<Essi ci hanno visitati;
essi ci hanno visitati – riprese la voce – e c’erano tutti: tutti coloro che ti
sei imbattuto nei libri, tutti coloro che hanno popolato le tue fantasie. Ecco
Lear; il capo ancora bagnato dalla bufera, e ride, perché tu ti credevi
esistente e lui solo un’ombra, mentre l’ombra sei tu, e lui un dio immortale,
ecco Beatrice, con le labbra appena schiuse in un sorriso, come se tutte le
stelle stessero per spegnersi in un sospiro d’amore; ecco la madre di Dio
dell’umiltà, di Colui che ha ammaliato gli uomini a tal punto che essi hanno
cercato di spopolare il loro cuore perché Egli potesse regnarvi da solo: ma la
madre Sua ha in mano una rosa ogni cui petalo è un dio; ed ecco, oh; rapida
giunge! Afrodite in un crepuscolo che cade dalle ali di innumerevoli passeri, e
intorno ai suoi piedi stan le colombe, bianche e cinerine>>.Sempre in
preda al sogno lo vidi allungare il braccio sinistro e passarvi sopra la mano
destra come se accarezzasse le ali di una colomba. Feci unno sforzo tremendo, e
mi parve quasi di spezzarmi in due, e dissi con decisione sforzata, <<Tu
vorresti travolgermi e trascinarmi in un mondo indefinito che mi riempie di
terrore, invece la grandezza di un uomo sta nella capacità di crearsi una mente
che rifletta ogni cosa con l’indifferente precisione di uno specchio>>.
Mi pareva d’essere rientrato in pieno possesso delle mie facoltà, e continuai,
ma più in fretta, <<Ti ordino di lasciarmi immediatamente, perché le
tue idee e le tue fantasie altro non sono se non illusioni che s’insinuano come
vermi nella civiltà in declino, e nelle menti in decadenza>>. Mi era
nata dentro una rabbia improvvisa e, afferrato l’alambicco dal tavolo, stavo
per alzarmi e colpirlo, quando mi parve che i pavoni sulla porta alle sue
spalle crescessero a dismisura, immensi; e poi l’alambicco mi cadde di mano e
fui sommerso da una marea di penne verdi e blu e bronzee, e mentre lottavo
disperatamente udii in lontananza una voce che diceva, <<Il nostro
maestro Avicenna ha scritto che ogni forma di vita procede dalla
corruzione>>.Ormai le penne scintillanti m’avevano coperto
completamente, e capii d’aver lottato per centinaia d’anni, e finalmente fui
vinto. Mentre sprofondavo nell’abisso il grigio e il blu e il bronzo che
sembravano riempire il mondo diventarono un mare di fiamme e mi travolsero, e
nel turbine che mi trascinava udii sul mio capo una voce gridare, <<Lo
specchio si è rotto in due pezzi>>, e un’altre voce rispondere, <<Lo
specchio si è rotto in quattro pezzi>>, e una voce più lontana
gridare con grido esultante, <<Lo specchio si è rotto in innumerevoli
pezzettini>>; e poi una moltitudine di pallide mani si protese verso
di me, e visi dolci e strani si chinarono su di me, e voci tra il lamentoso e
il carezzevole mi dicevano parole che dimenticavo nell’attimo stesso in cui
erano pronunciate. Ero tratto fuori da quella marea di fiamma, e sentivo
liquefarsi i miei ricordi, le mie speranze, i miei pensieri, la mia volontà,
ogni cosa che io ritenevo essere me stesso; poi mi parve di salire passando
attraverso innumerevoli congreghe di esseri che erano, m’era dato di capire, in
un modo più certo del pensiero, ciascuno sviluppato nel proprio attimo eterno,
nel perfetto sollevar di un braccio, in un cerchio di parole ritmiche in un
sogno a palpebre socchiusa ad occhi appannati. E poi passa oltre queste forme,
che erano tanto belle di aver quasi cessato di essere, e, dopo aver sofferto
strani stati d’animo, malinconici, così pareva, per essere gravati dal peso di
molti mondi, entrai in quella Morte che è la Bellezza stessa, e nella
Solitudine che tutte quelle moltitudini incessantemente desiderano. Mi parve
per tutte le cose che avessero mai avuto vita entrassero a stabilirsi nel mio
cuore, e io nel loro; e non avrei più conosciutone morte né lacrime, se non
fossi improvvisamente precipitato dalla certezza della visione nell’incertezza
del sogno, e diventato una goccia d’oro fuso che cadeva a velocità smisurata
attraverso una notte trapuntata di stelle, e tutt’intorno a me un gemito
malinconico ed esultante. Caddi e caddi e caddi, e poi il gemito fu solo più il
gemito del vento nel cammino, e mi svegliai per ritrovarmi appoggiato al
tavolo, la testa tra la mani. Vidi l’alambicco che oscillava da una parte
all’altra nel lontano angolo in cui ero rotolato, e Michael Robartes che mi
guardava, nell’attesa. <<Verrò con te dovunque tu voglia – dissi – e
farò qualsiasi cosa tu mi chieda, perché sono stato tra le cose
eterne>>.<<Ho capito – replicò – che dovrei necessariamente
rispondere come hai risposto, quando ho udito lo scoppio della tempesta. Devi
venire molto lontano, perché c’è stato ordinato di costruire il nostro tempio
tra la pura moltitudine presso le onde e l’impura moltitudine degli
uomini>>.Mentre attraversavano in carrozza le strade deserte non
pronunciai parola. La mia mente si era stranamente svuotata dalle impressioni e
dei pensieri consueti, quasi che fosse stata strappata al mondo definito e
gettata nuda su un mare sconfinato. A tratti mi sembrava che la visione sesse
per ricominciare, e ricordavo vagamente, in un’estasi di gaudio o di dolore,
delitti ed atti eroici, fortune sfortune, o cominciavo a contemplare, col cuore
che mi balzava improvvisamente in petto, speranze e terrori, desideri e
ambizioni, estranei alla mia vita meticolosa e ordinata; e poi mi svegliavo
tremante al pensiero che un essere grande e imponderabile aveva attraversato
come un turbine la mia mente. Ci vollero, invero, giorni prima che questa
sensazione scomparisse del tutto, e anche ora, che ho cercato rifugio
nell’unica fede certa, sono molto tollerante nei confronti di quelle
personalità incoerenti che si radunano nei templi e nei ritrovi di certe sette,
poiché anch’io ho sperimentato il dissolversi di ferme abitudine e principi di
fronte a una forma che, forse, era bysterica passio o pura follia, ma in ogni
caso tanto potevate nella sua malinconica esultanza di farmi tremare al
pensiero che potrebbe risvegliarsi di nuovo e strapparmi a quella pace che ho
da poco ritrovata. Quando, nel diffuso grigiore, arrivammo alla grande stazione
semivuota, mi parve di aver subito un tale cambiamento di non esser più, com’è
l’uomo, un attimo che rabbrividisce al cospetto dell’eternità, ma l’eternità
che piange e ride sulla sorte di un attimo, e quando fummo partiti e Michael
Robartes si fu addormentato, cosa che fece quasi subito, il suo viso dormiente,
su cui non v’era traccia di ciò che mi aveva sconvolto e mi teneva desto, parve
alla mia mente eccitata più una maschera che un volto. Mi ossessionava l’idea
che l’uomo dietro quella maschera si fosse sciolto come sale nell’acqua, e che
le sue risate e i suoi sospiri, le sue preghiere e le sue accuse, fossero l’esecuzione
di ordini impartiti da esseri superiori o inferiori all’uomo. <<Costui
non è affatto Michael Robartes è morto, da dieci, forse da vent’anni>>,
continuavo a ripetermi. Alla fine caddi in preda a un sonno febbrile, da cui mi
risvegliavo di tanto in tanto mentre sfrecciavano attraverso qualche cittadina
dai tetti d’ardesia lucidi di pioggia, o lungo qualche lago tranquillo e
scintillante nella fredda luce del mattino. Per la troppa preoccupazione non
avevo domandato dov’eravamo diretti, né aveva badato ai biglietti acquistati da
Robartes, ma capivo dalla direzione del sole che stavamo andando verso
occidente; e in breve m’accorsi anche, dalla fuga degli alberi che sempre più
simili a mendicanti stracciati correvano verso oriente a capo chino, che ci
stavamo avvicinando alla costa occidentale. Poi, d’improvviso, vidi alla mia
sinistra, tra le colline basse, il mare, di un grigio monotono rotto di macchie
e strisce bianche. Quando scendemmo dal treno seppi che ci restava ancora un
tratto di strada da fare, e ci mettemmo in cammino, stringendoci col cappotto,
perché il vento era forte e tagliente. Michael Robartes taceva, come se fosse
ansioso di lasciarmi ai miei pensieri; e mentre camminavamo tra il mare e il
fianco roccioso di un gran promontorio, mi resi conto con nuova e perfetta
lucidità del trauma subito da ogni mio modo di pensare e di sentire, sempre che
non fosse, addirittura, intervenuto qualche misteriosa modificazione nella
sostanza della mia mente, che quelle onde grigie, con i loro pennacchi di
spruzzi e di spume, erano entrate a far parte di una mia brulicante e
fantastica vita interiore; e quando Michel Robartes m’indicò una casa squadrata
all’aria antica, al riparo della quale sorgeva un altro edificio più piccolo e
più recente, proprio in fondo ad un molo in rovina e quasi deserto, e assicurò
che era il Tempio della Rosa Alchimistica, mi sorpresi a fantasticare che il
mare, che lo copriva di continuo con una pioggia di spume bianche, lo
reclamasse come parte di una vita indefinita e appassionata, che aveva iniziato
a muover guerra ai nostri giorni meticolosi e ordinati, e stava per piombare il
mondo in una notte oscura come quella che seguì alla caduta del mondo classico.
Una parte della mia mente si faceva beffe di questo terrore fantastico, ma
l’altra, la parte che era ancora semisommersa nella visione, ascoltava il
fragore d’eserciti sconosciuti che si scontravano, e rabbrividiva di fronte ad
immaginabili fanatismi, minacciosamente perdenti in quelle onde grigie che
balzavano sul molo. C’eravamo appena incamminati lungo di esso che c’imbattemmo
in un vecchio, il quale era evidentemente un guardiano, poiché se ne stava
seduto in un barile capovolto, vicino ad una breccia del molo che era stata da
poco riparata dai muratori,davanti a un fuoco come quelli che si vedevano
appesi sotto i carri dei calderai ambulanti. Vidi che era anche molto devoto,
perché da un chiodo sull’orlo della botte pendeva un rosario, e a quella vista
rabbrividii, e non capii perché rabbrividivo. Gli passammo accanto, ma non
facemmo in tempo a percorrere pochi metri che lo udii gridare, in gaelico:
<<Idolatri, idolatri, andate all’inferno, così le arringhe torneranno
in questa baia>>, e, per qualche attimo lo udii un po’ gridare ed un
po’ borbottare alle nostre spalle. <<Non ha paura – domandai – che
questa gente primitiva, questi pescatori, compiano qualche gesto disperato
contro di voi?>>. <<A me ed ai miei – rispose – gli uomini non
possono fare del male ne portare aiuto, poiché ci siamo incorporati con gli
spiriti immortali, e, la nostra mente sarà il coronamento dell’opera suprema.
Tempo verrà, anche per questa gente, e, sacrificheranno un cefalo ad Artemide,
o qualche altro pesce a qualche nuova divinità, salvo che gli dei, della loro
stessa stirpe, non riedificheranno i loro templi di pietra grigia. Il loro
regno non è mai tramontato, ma è solo un po’ scemato il suo potere, perché i
Sidhe passano ancora in ogni vento, e danzano e giocano, a hurley, ma non
possono ricostruire i loro templi fin che non ci saranno stati martiri e
vittorie, e forse anche quella battaglia, da gran tempo vaticinata, nella Valle
del Maiale Nero>>. Tenendoci accosto al muro che correva intorno al molo,
dalla parte del mare, per ripararci dal vento e dal turbinare delle spume, che
rischiavano di farci perdere l’equilibrio, ci dirigemmo, in silenzio, verso la
porta dell’edificio quadrato. Michael Robartes la aprì con una chiave segnata
dalla ruggine, di molti venti salsi, e mi guidò per un corridoio spoglio e su
per una scala senza guida fino ad una stanzetta dalle pareti tappezzate di
libri. Mi avrebbero portato da mangiare, ma solo frutta, perché dovevo
sottopormi ad un moderato digiuno prima della cerimonia, spiegò, ed insieme al
cibo un libro sulla dottrina e sul metodo dell’Ordine, su cui dovevo consumare
quanto restava della luce di quella giornata invernale. Poi mi lasciò,
promettendomi di tornare un’ora prima della cerimonia. Cominciai a frugare tra
gli scaffali, e scoprii una delle più
ricche biblioteche alchimistiche che avessi mai visto. C’erano le opere di
Morienus, che nascondeva il suo corpo immortale sotto una camicia di crine; di
Avicenna che, pur essendo un ubriacone, comandava innumerevoli legioni di
spiriti; di Alfarabi, che metteva tanti spiriti nel suo liuto che poteva far ridere
la gente, o farla piangere o cadere in una trance simile alla morte, a
piacimento; di Lullo, che si trasformava in un gallo rosso; di Flamel, che con
sua moglie Pernella riuscì a fabbricare l’elisir di lunga vita molti secoli fa,
di cui si favoleggia che vive ancora in Arabia in mezzo ai dervisci; e di molti
altri meno noti. C’erano pochissimi testi di mistica, che non fossero di
mistici alchimisti, che i mistici puri, n’ero certo, essendo per la maggior
parte devoti ad un solo dio, erano stati scartati da Robartes, il quale
riteneva che da ciò derivasse inevitabilmente un senso limitato della bellezza,
ma notai una collezione completa di facsimili degli scritti profetici di
William Blake, scelto probabilmente per le moltitudini che affollavano le sue visioni
ed erano <<come i pesci felici nelle onde quando la luna succhia a sé le
rugiade>>. Notai anche la presenza di molti poeti e prosatori di ogni
epoca, ma solo quelli che erano un pò stanchi della vita, come invero i più
grandi lo sono stati dovunque, e che ci gettavano la loro fantasia, come se non
n’avessero più bisogno adesso che salivano in alto sui loro carri di fuoco. Di
lì a poco udii bussare ala porta, ed entrò una donna e posò un po’ di frutta
sul tavolo. Si capiva che un tempo era stata bella,ma aveva le guance scavate
da qualcosa che avrei giudicato, se l’avessi
vista altrove, turbamento della carne e sete di piacere, mentre si
trattava certamente di turbamento della fantasia e di sete di bellezza. Le feci
qualche domanda riguarda alla cerimonia, ma non ottenendo altra risposta che
uno scotimento del capo, capii che dovevo aspettare l’iniziazione in silenzio.
Quand’ebbi mangiato ritornò, e, messa sul tavolo una scatola di bronzo
cesellato in modo strano, accese le candele, e portò via i piatti e gli avanzi.
Appena fu solo rivolsi la mia attenzione alla
scatola, e vidi che i pavoni di Era allargavano la coda sulle pareti e sul
coperchio, su uno sfondo lavorato a grandi stelle, come ad affermare che i
cieli partecipavano del loro splendore. Nella scatola c’era un libro rilegato
in pergamena, e sulla pergamena era impresso, in oro e colori delicatissimi, il
simbolo della Rosa Alchimistica, contro di cui erano puntate molte lance, ma
invano, che le punte di quelle più vicine ai petali erano spezzate. Il libro
era scritto su pergamena, e a belle e chiare lettere, frammischiate con figure
simboliche e miniature nello stile dello Splendor Solis. Il primo capitolo
raccontava come sei studiosi di origine celtica, essendosi dedicati ciascuno
per proprio conto allo studio dell’alchimia, avevano svelato, rispettivamente,
il mistero del Pellicano, il mistero del Gran Drago, il mistero dell’Aquila, e
quello del Sale e del Mercurio. Una serie di circostanze apparentemente
fortuite, ma che erano, secondo il libro, una macchinazione di potenza
soprannaturale, li fece incontrare nel giardino di una locanda del Sud della
Francia, e mentre discorrevano insieme li colpì l’idea che l’alchimia fosse la
distillazione graduale dei contenuti dell’anima, fino a che non fossero pronti
a spogliarsi della mortale per rivestirsi dell’immortale. Passò una civetta;
frusciando tra i pampini sopra il loro capo, e poi venne una vecchia,
appoggiandosi ad un bastone, e, sedutasi accanto a loro, riprese l’idea da dove
l’avevano lasciata cadere. Dopo aver spiegato il principio essenziale
dell’alchimia spirituale, e aver ingiunto loro di fondare l’Ordine della Rosa
Alchimistica, scomparve di tra in mezzo a loro, e quando vollero seguirla non
riuscirono più a vederla. Si costituirono in un Ordine, mettendo i loro beni e
svolgendo le loro ricerche in comune, e, man mano che si perfezionavano nella
dottrina alchimistica, apparizioni andavano e venivano in mezzo a loro, e da
esse apprendevano misteri sempre più meravigliosi.. Il libro procedeva quindi
ad esporre la parte che era lecito rivelare ad un neofito, dilungandosi
alquanto all’inizio sulla realtà indipendente dei nostri pensieri: dottrina,
questa, dichiarava, che era la fonte di ogni
vera dottrina. Se si immaginano, diceva le sembianze di essere vivente,
un’anima vagante se ne impossesserà immediatamente, e se ne andrà in giro a
fare il bene e il male, fino al momento della sua morte e citava molti esempi,
forniti, diceva, da molti dei. Eros aveva insegnato loro a plasmare delle forme
in cui un’anima divina poteva dimorare e sussurrare ciò che voleva nelle menti
dormienti, e Ate, delle forme da cui esseri demoniaci potevano versare la
follia, o sogni inquieti, nel sangue dormiente, ed Ermes, che si immaginava
intensamente un cane accanto al letto esso resterà lì a far la guardia fino al
nostro risveglio, e caccerà via tutti i demoni tranne i più potenti, ma se le
si immagina debolmente, anche il cane sarà debole, e i demoni prevarranno, e il
cane morirà ben presto, e Afrodite, che si crea, con la forza della fantasia,
una colomba incoronata d’argento e le si ordina di frullare le ali sopra il
nostro capo, il suo soave tubare chiamerà a raccolta dolce sogni d’amore
immortale ad aleggiare a fronte sul nostro sonno mortale; e tutte le divinità
avevano parimenti rivelato loro, tra molte ammonizioni e lamenti, per tutte le
menti generano e amano continuamente esseri del genere, che producono solite o
malanni, felicità o follia. Chi voglia dar forma alle potenze maligne,
continuava il libro, deve farle brutte, il labbro sporgente ed avido di vita, o
romper le proporzioni di un corpo con i giovani della vita; ma le potenze
divine vogliono apparire solo in belle forme, in forme che escano, se così si
può dire, tremule, dall’esistenza, per avvilupparsi in un’estasi senza tempo e
lasciarsi trasportare, ad occhi socchiusi, in una quiete sonnolenta. Le anime
incorporee, che scendono a dimorare in queste forme, sono chiamate umori degli
uomini; ed ogni grande cambiamento che accadi, nel mondo, è opera loro, perché
come il mago o l’artista possono evocarle a piacimento, così esse, a loro
volta, possono evocare, e far sorgere, dalla mente del mago o dell’artista, o
da quella del pazzo o dell’uomo turpe, se sono demoni, qualsiasi forma
vogliono, ed esprimersi attraversala sua voce ed i suoi gesti, e riversarli nel
mondo. Cos’ si compirono tutti i grandi eventi: un umore, una divinità od un
demone, scesi dapprima, come un debole sussurro, nelle menti degli uomini, ne
modificarono, poi i pensieri, e le azioni fin che i capelli, che erano biondi,
diventarono corvini, o, capelli, che erano corvini, diventarono biondi, ed
imperi mossero i loro confini, come se fossero foglie portate dal vento. Il
resto del libro conteneva i simboli di forme e suoni, e colori, e le loro
rispettive attribuzioni a divinità e demoni, affinché l’iniziato imparasse a
plasmare una forma per ogni divinità ed ogni demone, e fosse potente, come
Avicenna, tra coloro che vivono sotto le radici del riso e del pianto. Un paio
d’ore dopo il tramonto Michael Robartes ritornò ed affermò che avrei dovuto
imparare i passi di una danza antichissima, poiché, prima che la mia
iniziazione fosse compiuta, avrei dovuto unirmi, tre volte, a una danza magica,
poiché il ritmo era la ruota dell’Eternità, e solo su di essa si poteva
spezzare il transeunte e l’accidentale, e liberare lo spirito. Vidi che i
passi, abbastanza semplici, somigliavano a certe antiche danze greche, e,
siccome, da giovane, ero stato un bravo ballerino, in grado di eseguire
perfettamente molti curiosi passi di danza gaelici, li mandai a memoria in un
batter d’occhio. Poi mi fece indossare, ed indossò anch’egli, una lunga tunica,
di foggia vagamente greca o egiziana, ma di un rosso acceso che faceva pensare
ad una vita più appassionata di quella della Grecia o dell’Egitto; e dopo
avermi messo in mano un turibolo di bronzo, senza catenelle, lavorato in forma
di rosa, opera di un artigiano moderno, mi disse di aprire una porticina di
fronte alla porta di cui ero entrato. Appoggiai la mano sulla maniglia, ma, in
quello stesso istante, i fumi dell’incenso, aiutati, forse, dal suo misterioso
fascino, mi fecero, nuovamente, piombare in un sogno, in cui mi pareva di
essere una maschera esposta sul banco di un negozietto orientale. Molte
persone, la cui natura sovrumana era palese per la gran luminosità e fissata
dello sguardo, entravamo e mi provavano sulla loro faccia, ma poi mi gettavano
in un angolo ridendo, ma tutto ciò svanì in un attimo, perché quando mi
svegliai avevo ancora la mano sulla maniglia. Aprii la porta, e mi trovai in un
corridoio meraviglioso, dalle pareti coperte di mosaici del Battistero di
Ravenna, ma d’una bellezza meno severa: il colore dominante di ciascuna
divinità, un coloro simbolico, indubbiamente, corrispondeva a quello delle
lampade, stranamente aromatiche, che prendevano il soffitto, una davanti a ogni
divinità. Passai oltre, chiedendomi con indicibile stupore come avessero fatto
quegli entusiasti a creare tutta quella bellezza in un lungo così fuori mano, e
quasi persuaso dalla vista di tante ricchezze nascoste a credere in un’alchimia
materiale; e mentre passavo il turibolo riempiva l’aria di fumi congiunti. Mi
fermai dinanzi a una porta sui cui i pannelli di bronzo erano cesellate delle
grandi onde nella cui ombra si profilavano vagamente volti spaventevoli. Coloro
che stanno di là da essa dovevano aver udito i nostri passi, perché una voce
gridò, <<L’opera del Fuoco Incorruttibile è dunque compiuta?>> e
Michael Robartes replicò immediatamente, <<L’oro perfetto è uscito
dall’athmor>>. La porta si spalancò, e ci trovammo in una grande stanza
circolare, tra uomini e donne in abiti scarlatti che danzavano adagio. Sul
soffitto c’era un mosaico una rosa immensa, e un altro mosaico correva
tutt’intorno alle pareti con una battaglia tra dei ed angeli uniformemente
grigi, poiché, mi sussurrò Michael Robartes, avevano rinunciato alla loro
divinità, e cessato di manifestare l’individualità dei loro cuori per amore di
un Dio d’umiltà e di dolore. Il tetto era sorretto da pilastri che formavano
una specie di chiostro circolare, e ogni pilastro era una colonna di sagome
confuse, divinità del vento, si sarebbe detto, turbinando in una danza di
veemenza sovrumana, si levano a suonar flauti e cimbali; e di tra quelle sagome
si protendevano mani, mani che reggevano dei turiboli. Mi fu ingiunto di
deporre anche il mio turibolo in una di quelle mani e di prendere il mio posto
a danzare, e mentre mi allontanavo dalle colonne per volgermi ai danzatori vidi
il pavimento, di pietra verde, con in mezzo un’intarsio raffigurante un Cristo
sbiadito su una croce sbiadita. Robartes, cui avevo chiesto che cosa
significasse, mi rispose che volevamo <<turbare la Sua unità con la
moltitudine dei loro piedi>>. L’ordito della danza continuava a
intrecciarsi, disegnando sul pavimento come dei petali, uguali ai petali della
rosa sul soffitto, e al suono dei strumenti nascosti, che erano forse d’antico
modello, perché non avevano mai uditi di simili; e la danza si faceva sempre
più appassionata, finché non mi parve che sotto ai nostri piedi si fossero
risvegliati tutti i venti del mondo. Dopo un po’, sentendomi stanco, mi fermai
sotto il pilastro a guardare l’andirivieni di quelle figure guizzante come
fiamme; finché non sprofondai a poco a poco in una specie di sogno, da cui mi
svegliai quando vidi i petali della grande rosa, che non sembrava più un
mosaico, cadere lentamente nell’aria greve d’incenso, e, mentre cadevano,
assumere la forma di esseri viventi di straordinaria bellezza. Ancor vaghi e
nebulosi, si misero subito a danzare, e mentre danzavano le loro forme si
facevano più chiare e definite, tanto da consentirmi di distinguere, visi greci
di grande bellezza e nobili visi egiziani, e di identificare di tanto in tanto
qualche divinità dalla verga che recava in mano o dall’uccello che svolazzava
sopra il suo capo; e in breve ogni piede mortale danzò accanto al bianco piede
di un’immortale; e negli occhi turbati che fissavano occhi imperturbabili e
umbratili vidi lo splendore del desiderio supremo, come se avessero finalmente
trovato, dopo incalcolabile peregrinare, il perduto amore della loro
giovinezza. Vedevo a tratti, ma solo per un attimo, una figura fievole e
solitaria dal volto velato che, una fievole fiaccola nella mano, guizzava in
mezzo ai danzatori, ma come un sogno in un sogno, come l’ombra di un’ombra, e
capii per mezzo di una facoltà intellettuale che attingeva a una fonte più
profonda del pensiero, che si trattava di Eros, e che il mio volto era velato
perché dai primordi del mondo nessuno, uomo o donna , ha mai saputo cosa sia
l’Amore, né lo ha mai guardato negli occhi, perché di tutti gli dei, Eros è il
solo che sia completamente spirituale, e quando vuol entrare in comunione con
un cuore mortale si nasconde dentro passioni la cui essenza è diversa dalla
sua. Sicché, se un uomo ama nobilmente, conosce l’Amore attraverso la
compassione illimitata; se ignobilmente, attraverso la gelosia violenta, l’odio
repentino, il desiderio inestinguibile; ma l’Amore senza veli non potrà mai
conoscerlo: Mentre ero immerso in questi pensieri, una voce che veniva dalle
figure scarlatte mi gridò, <<Unisciti alla danza! Nessuno può restarne
fuori; unisciti alla danza!; unisciti alla danza! Affinché gli dei possono
farsi un corpo con la sostanza dei nostri cuori>>, e, prima che potessi
rispondere, una misteriosa ondata di passione, che sembrava l’anima della danza
che si muoveva nelle nostre anime, si impadronì di me e fui trascinato, né
riluttantenè consenziente, in mezzo ai danzatori. Danzano con una donna
dall’aspetto maestoso, un’immortale che aveva gigli neri nei capelli e il suo
portamento sognante sembrava carico di una saggezza più profonda della tenebra
che c’è tra stella e stella, e di un amore simile all’amore che spirò sulle
acque; e mentre danzavano e danzavano e danzavano l’incenso ci copriva e ci
avvolgeva, come a nasconderci dentro il cuore del mondo, e sembrava che i
secoli passassero, e nelle pieghe delle nostre vesti e nei suoi folti capelli
scoppiassero tempeste che poi si placavano. Improvvisamente mi ricordai che le
sue palpebre non avevano mai dato un battito, e che neanche un petalo dei suoi
gigli neri era caduto, e compresi con un fremito d’orrore che avevo danzato con
una creatura che era superiore o inferiore alle creature umane, e che stava bevendosi
l’anima fino in fondo, così come un bue prosciuga una pozza d’acqua sul margine
della strada: e caddi, e piombai nella tenebra. Mi svegliai improvvisamente
come se mi avesse risvegliato qualcosa, e vidi che giacevo su di un pavimento
dipinto in modo grossolano, che sul
soffitto, piuttosto basso, c’era una rosa dipinta grossolanamente, e i muri
all’intorno erano coperti di affreschi non finiti. I pilastri e i turiboli
erano scomparsi; e accanto a me c’erano una ventina di dormienti avvolti in
lunghe vesti in disordine, i cui volti girati all’insù mi parevano vuote
maschere, e su di loro risplendeva un’alba gelida che penetrava da una finestra
oblunga che prima non avevo notato; e fuori il mare muggiva. Vidi Michael
Robartes che giaceva un po’ più in là con accanto una ciotola di bronzo
lavorato: era rovesciata e sembrava che avesse contenuto dell’incenso. Mentre
me ne stavo così seduto per terra, udii all’improvviso un tumultuare di voci
furenti d’uomini e donne che si mescolavano col muggito del mare, e balzando in
piedi andai in fretta da Michael Robartes e lo scossi per svegliarlo. Poi lo
afferrai per le spalle e cercai di sollevarlo, ma ricadde all’indietro, ed
emise un flebile sospiro. Le voci si stavano facendo sempre più forti e
furenti; e si sentiva un rumore di colpi violenti contro la porta che dava sul
molo. Quando udii il rumore del legno che si spaccava, e capii che stava
cedendo, corsi verso la porta della stanza. La spalancai e mi trovai in un
corridoio del pavimento d’assi di legno che facevano un gran fracasso sotto i
miei piedi,e nel corridoio trovai un'altra porta che dava in una cucina vuota;
e mentre passavo attraverso quella porta udii due schianti uno dopo l’altro, e
capii dall’improvviso scalpiccio e dalle grida che la porta che dava sul molo
era stata abbattuta. Uscii di corsa dalla cucina in un cortiletto, e di li
scesi per una scaletta nel fianco del molo che digradava verso il mare, e poi
avanzai lungo il pelo dell’acqua cercando degli appigli con le mani, con quelle
grida piene d’ira che mi risuonavano negli orecchi. Quella parte del molo era
stata costruita da poco con dei blocchi di granito, e non era quindi ricoperta
d’alghe; ma quando arrivai alla parte vecchia dovetti arrampicarmi fino al
piano stradale per non scivolare sulle alghe verdi. Mi voltai a guardare il
Tempio della Rosa Alchemica, dove i pescatori e le donne continuavano a
gridare, ma un po’ più piano, e vidi che intorno alla porta e sul molo non
c’era nessuno; ma mentre guardavo una piccola folla si precipitò fuori della
porta e si mise a raccogliere grosse pietre da un mucchio pronto per la
prossima mareggiata che facesse a pezzi il molo, quando sarebbero state posate
sotto i blocchi di granito. Mentre ero fermo a osservar la folla, un vecchio,
in cui mi parve di riconoscere il devoto, mi indicò col dito, e urlò qualcosa,
e la folla sbiancò, perché tutte le facce si erano voltate verso di me. Mi mise
a correre, e buon per me che quei rematori robusti dalle forti braccia non se
la cavavano altrettanto bene nella corsa; eppure mentre correvo udivo appena lo
scalpiccio dei miei inseguitori e le loro grida rabbiose, perché l’aria sopra
il mio capo pareva risuonare di molte voci esultanti e lamentose che
dimenticavo nell’attimo stesso in cui le udivo, come si dimentica un sogno.
Anche adesso ci sono momenti in cui mi pare di udire quelle voci esultanti e
lamentose, e in cui quel mondo indefinito, che è ancora padrone di una parte
del mio cuore e del mio intelletto, sembra sul punto di ridurmi totalmente in
suo potere; ma io porto il rosario intorno al collo, e quanto le odo, o mi pare
di udirle, me lo stringo al cuore e dico, <<Colui il cui nome è legione è
alle nostre porte e trae in inganno il nostro intelletto con le sue
sottigliezze e adula il nostro cuore con la bellezza, ma noi confidiamo
soltanto in Te>>, e allora la guerra che altrimenti infuria dentro di me
si placa, e o pace.
Y.W. Butler |